venerdì 10 giugno 2016

I dadi

Tirò una boccata profonda, lasciando scendere il fumo fin dentro ai polmoni. Chiuse gli occhi all’orizzonte ramato del tramonto marino, esalò un respiro carico della merda che aveva dentro.
Catrame e malinconia.
La nicotina no, quella no, la desiderava nelle vene e dritta fino al cervello.
Abitudine stronza. Ma non se ne curava poi molto.
Il sonno gli stava incollato addosso come una seconda pelle, togliendogli la forza di respirare. Il martini attendeva immacolato un paio di labbra da baciare e la gente intorno sciamava come piccole formichine troppo intente a lavorare per capire che la loro vita era lì, adesso, e non in una sorta di futuro ipotetico.
Non era tipo da futuro, lui.
L’illusione del tempo aveva abbandonato la sua testa da anni ormai. Prima ancora di Nadine e della merda seguita.
Puttana eva.

Nadine. Sempre Nadine. Non faceva in tempo a dimenticarsene che lei tornava.
Puntuale come la morte. O la puttana che ti conosce bene.
Ma in fin dei conti, cosa avrebbe potuto aspettarsi di diverso?
Nadine era saldata alla sua anima, fusa nella sua stessa carne, intrecciata in modo inestricabile alla sua stessa essenza.
Qualcosa del quale non avrebbe potuto liberarsi in alcun modo, se non con la morte.
Eppure, era ora di scegliere, era infine giunto il momento di muovere oltre.
Doveva scrollarsela di dosso una volta per tutte, lasciarla andare, liberarsi di lei.
Non si poteva più fidare, l’aveva tradito troppe volte per poter ricominciare.
L’assenza. Non esisteva lei, in nessuna forma o sostanza. Illusione che doveva essere scacciata come uno spirito nefasto la cui presenza brucia ed offusca, incapace di andare avanti.
Si alzò dalla sedia con uno scatto. Prese un’altra boccata dalla sigaretta, sospirando al cospetto del mare.
Dannata malinconia. Non sarebbe tornato indietro, questa volta. Una decisione era stata presa.
Dannato Cesare ed i suoi dadi del cazzo.
Pregava solo di essere in grado di mantenere quella posizione che sempre di più andava assomigliando ad un patibolo.
Odio e amore erano sentimenti così sottilmente vicini, talmente simili da poter sfociare repentinamente l’uno nel territorio dell’altro.
Era così un inferno la sua vita, il panico di una prigione immobile fatta di sbarre invisibili, alla mercè di una carceriera sadica ed idiota.
L’avrebbe uccisa piazzandole una pallottola in cuore.
Doveva smettere di amarla, si ripeteva, doveva smettere di pensare a lei.
CI sarebbe riuscito. Forse. Ma non sapeva ancora come.
Abbandonò una banconota sul tavolo prima di tracannare quanto restava del martini.
L’alcool lo colpì al muso, improvviso, ricordandogli che in fondo il mondo non è poi un brutto posto.
Già, proprio così.
In fin dei conti lui era Lucien, cosa poteva mai importargli di una donna tra tante altre.
Nadine. Razza di puttana. Nadine.
Scacciò il suo pensiero a calci dalla sua testa. Raccolse la giacca e cominciò a camminare verso il lungomare, mettendo un piede davanti all’altro senza sapere bene dove andare.
Non aveva bisogno di riflettere, soltanto di inondare gli occhi e la mente di volti e facce nuove, differenti, per perdere i suoi occhi in mille altri.
Cercò le parole, le attese all’uscio una ad una, invitandole ad entrare, selezionandole. Non voleva rabbia, neppure amarezza. Indifferenza? No, neppure. Non poteva donare indifferenza alla donna che più di tutte aveva amata. Tra tutte, questa era l’emozione più improbabile di tutte, anche se la più preferibile.
Impossibile.

Amore, si disse, amore. E’ tempo. La mia strada mia attende, solitaria che sia, ma la mia. Non c’è spazio per te in questo nuovo corso.