giovedì 31 gennaio 2008

Brevi Storie Inesistenti – Capitolo I, parte IV

Versò lo zucchero nella tazzina, lo mescolò facendo attenzione a non provocare quel fastidioso suono proprio del metallo che collide con la porcellana.

Non che la cosa importasse particolarmente, lo faceva per pura e semplice ritualità.

Era legato i piccoli gesti, quei comportamenti quasi maniacali che gli permettevano di mantenere uno straccio di contatto con la realtà, quasi fosse l'unica ancora di normalità in una vita ai limiti della follia.

Gettò lo sguardo alla prima pagina, sorseggiando quel caffè fumante, appena troppo dolce per essere davvero gradevole.

La foto di via Garibaldi sventrata raccontava più di mille parole.

Aveva decisamente fatto un ottimo lavoro.

Abbozzò un sorriso ed accese una sigaretta, la Musa che l'avrebbe ispirato nella stesura del rapporto.

Digitò la password d'accesso battendo rumorosamente i caratteri sulla tastiera. Dopo qualche istante d'incertezza il browser l'accolse.

“LogIn avvenuto: operativo SIDDHARTA riconosciuto”

Cominciò a scrivere minuziosamente i dettagli, luoghi ed orari, modalità operative: una cronaca minuziosa registrata in un database sicuro, incastrato tra le sale del potere che muove il mondo. Lontano da occhi indiscreti. Inarrivabile.

Istantanee dell'operazione inondavano la sua mente, rievocando l'odore della carne bruciata e quelle grida che si ripetevano, missione dopo missione, sempre uguali.

Per una frazione di secondo si chiese se tutto questo non fosse sbagliato, ma lui non era stato addestrato per argomentare le implicazioni morali degli ordini: era un soldato, un mero esecutore. Nulla di più.

La porta della stanza risuonò di nocche decise, interrompendo lo scorrere delle dita sulla tastiera ed il flusso di pensieri nella sua mente.

Digitò invio e chiuse il browser prima di accordare l'ingresso al visitatore.

“Avanti” invitò con una cortesia dettata esclusivamente dalla formalità.

La portà si aprì con un cigolio stridulo seguito dal rumore di stivali sul pavimento.

L' uomo in divisa blu fece ingresso nella stanza storcendo il naso per la cappa persistente di fumo.

“Mi perdoni, Ispettore” si scusò l'Appuntato, trattenendo a stento il bisogno di tossire “Il questore chiede di lei”.


martedì 22 gennaio 2008

maledetto

oggi

anima in pena

tormentata

follemente folle

aspra ed arida

brullo come una steppa

tetro

cupo ed ostile come un oceano in tempesta

affranto come uno specchio rugginoso


come la pioggia

cado incessante, oggi

mi placherò quando nulla più avrò da dire

ma intanto

sarò un boato

ed un vento lancinante

scuoterò fronde

perquoterò con grandine ogni passante

di bile ghiacciata e cristallina


tormento

fiume in piena


alluvione senz'argini

voragine insaziabile

che null'altro inghiotte se non se stessa

sono il buio e la notte

neanche la luna trova spazio nel mio abbraccio, questa sera

l'ho assassinata

rossa, ferita a morte

pieno d'ira ringhio

folle

Erano pezzi di realtà quelli che giacevano negli angoli caldi della stazione.
Poco più che tranci avariati e maleodoranti di questa vacca macellata chiamata Torino, scarti che nessuno vuole e che tutti disconoscono prontamente.
Loro sono gli "altri", quelli a cui accadono tutte le disgrazie al posto nostro, quelli che devono soffrire in nostro nome, i bei vitelli pasciuti da scarificare sui nostri altari.
Davvero una bella città, la mia.
Come si può lasciare che un uomo dorma in un cantuccio ricavato di fortuna, tra una porta a vetri ed un termosifone di una sala d'aspetto?
Come si può continuare a guardarsi allo specchio senza inorridire al riflesso dello stronzo che ti fissa?
Ieri ho provato vergogna, disgusto per ogni cosa che non ho fatto, ma che avrei dovuto fare.
Già, è semplice comprare del cibo, spendere qualche euro per ripulirsi la coscienza e poter credere di essere migliori di quelli che tiran dritto...
Cazzate, sono tutte cazzate, direbbe un caro amico.
Sono davvero cazzate. Ogni giorno ci macchiamo con il sangue di questa gente, rubiamo il futuro ad altri uomini con la nostra ignavia, dimenticandoci che non far nulla per impedire tutto questo schifo equivale ad esserne complici.
Il mondo sta andando a puttane e noi facciamo finta di nulla.
Io, tu, lei, noi.
Siamo tutti una massa di stronzi.

domenica 20 gennaio 2008

Il ritorno non è mai semplice.

Non lo è mentre bruci l’asfalto e gli autovelox ai 200 all’ora, non mentre ti lasci scivolare addosso tutti quei nomi ignoti che leggi nei cartelli segnalatori, non lo è quando osservi svincoli che non imboccherai mai, non lo è quando vedi un telo bianco di troppo…

Non lo è quando il mondo è cambiato… e tu con lui.

Ogni giorno, ogni istante, ogni dannatissimo frammento della tua vita cambi, cresi…invecchi.

La grossa comicità in tutto questo sta nella mia incapacità quasi costante di non accorgermene.

Ridicolo,non trovi? Fischietti un motivetto che le radio ormai da tempo non trasmettono più mentre rinvigorisci il tuo corpo sotto l’abitudinaria doccia per poi soffermarti su quello sconosciuto che ti guarda stupito ed interdetto proprio lì, davanti a te, nel tuo bagno…non sai che dire, ti chiedi come e perché sia entrato, chi sia…ed è proprio allora che la consapevolezza sferra il suo colpo più duro: Sei tu. Ma non lo sapevi.

Guarda quella ruga…ieri non c’era.

Ieri…quale ieri sarà mai,poi? Quanti ieri ti sono scivolati addosso, quanti hanno scavato cicatrici sulla tua pelle, quanti ti hanno scarnificato fino all’osso?

Ne hai perso il conto.


giovedì 17 gennaio 2008

Se fosse un'illusione?

Un miraggio, un piccolo spazio tra sinapsi allucinate e neuroni esausti?

Sei il solito dannatissimo punto interrogativo.

Criptica, imperscrutabile, enigmatica dietro quello sguardo,

tratto d'unione tra sogno e veglia.

Ascolti la musica dei corpi, ne segui il ritmo ad occhi serrati, trascinata effimera,

piena d'emozioni e vuota al tempo stesso...

Ancora un passo, danza odalisca, tieni il tempo, sii velluto sulle mani.

Danza, se vuoi esser come il Vento, danza se lacci e corsetti ti costringono, danza se vuoi dimenticare.

Muovi ancora, oscilla, incanta, serpe!

Arriverà il tuo morso, già sento i denti, ma come Mitridate attendo la spada.

Come combattere ciò che non si conosce, quando è il colore delle sue labbra ad esserne araldo?

Conosci il nome di quanto esiste?

Ne avverti il tocco, l'essenza?

E della pioggia, che dici?

Se le gocce tramontassero,

sole notturno,

lacrime cremisi e tela disfatta,

tra spruzzi di colore ed eterno?

Ruggine e rugiada,

sapore acre e dolce

miele dolce

brucia su labbra e gola

miele dolce

sangue mio

silenzioso

sangue mio

bisbiglia silenzioso

socchiudi occhi

ferisci di luce

ragione ermetica

presto o tardi

svelata

mercoledì 16 gennaio 2008

Che la vita possa esser così...

Someone Special

I wake up to the sound of rain upon my sill
Pick up the pieces of my yesterday old thrill
Can I deliver this used up shiver
To how I pronounce my life
And leave it up to faith to go by its own will

Back row to the left
A little to the side
Slightly out of place
Look beyond the light
Where you'd least expect
There's someone special

A foggy morning greets me quietly today
I smell a fragrance in the wind blowing my way
And ever further I run to find her
I yearn to define my life
Placing my faith in chance to meet me in half way

Back row to the left
A little to the side
Slightly out of place
Look beyond the light
Where you'd least expect
There's someone special

And she's here to write her name
On my skin with kisses in the rain
Hold my head and ease my pain
In a world that's gone insane...


(Poets of the Fall - Signs of life, 2006)

Work in progress

Il traffico torinese lo teneva intrappolato da quasi mezz'ora. Aspettava sotto un sole novembrino che si apprestava ad anadarsene incurante dei semafori rossi e dello strombettio dei clacson.

Un sole che passava ed al quale non fregava niente di chi stesse sotto, incolonnato a respirare fumo, sfiancato, stressato, incazzato.

Passava e basta. Fine della storia.

Markus non capiva molto del moto degli astri e dei pianeti, nè della matematica che Dio aveva impresso a fuoco in ogni atomo del Creato. Né gli interessava.

Non era questo il suo compito: lui doveva capire l'animo umano.

Nulla di più, nulla di meno.

Era per questo che s'incazzava quando si ritrovava imbottigliato, perchè capiva l'animo umano ed aveva finito per condividerne le emozioni e l'indole.

A volte si ritrorvava a pensare quanto fosse stronzo.

Si, proprio “stronzo”, esattamente questa parola.

Così umana, così incredibilmente calzante alla sua figura di stupido angelo che sia abbassa fino a diventare come le creature delle quali dovrebbe essere guida, per le quali dovrebbe essere come il Sole: un padre che osserva dalla distanza i propri figli, nutrendoli e facendo loro credere di essersi procacciati il cibo con le proprie esclusive energie.

Ma proprio non gli riusciva di staccarsi dal loro odore, dalla loro pelle. Li amava più di quanto amasse Dio stesso, senza riserve, con assoluta devozione. Follemente.

Proprio perchè era stronzo continuava a premere sul clacson ed imprecare.

Non aveva appuntamenti, voleva solo correre da Barbara e perdersi in quegli occhi che troppo gli ricordavano l'Abisso in cui troppi suoi compagni erano caduti.

Sbuffò ed aumentò il volume di “Kiss by a rose” , facendo eco a Seal dimenandosi come un idiota.

Non riusciva a smettere di stupirsi davanti a tutte quelle espressioni stupide che un viso umano era in grado di fare con uno specchio ed un motivetto orecchiabile.

Il cellulare squillò col suo trillo inquieto, una di quelle suonerie alla moda tanto ridicole quanto costose, la scritta “barbara” sul display.

"Brezza, Rugiada, mia Rosa" rispose Markus con parole che sembravano velluto, abbozzando un sorriso destinato a lei soltanto.

"Cosa devi farti perdonare, mascalzone?Quando parli così è perchè devi farti perdonare un'altra delle tue"la voce all'altra parte sembrava voler mostrare a lui quel sorriso che le aveva appena poggiato sulle labbra.

"Barbara" pensò tra se, senza parlare, consapevole di quanto ormai dipendesse dal calore di quella figlia di Adamo.

"Tesoro, ci sei?" incalzò la donna.

"Certo, mia piccola Eva, mi ha distratto un istante il traffico...dicevi?"

"Amore,amore,amore!Tieniti forte! Ho una notizia bellissima!Ma non posso dirtelaaa!" urlò Barbara, quasi fosse una bambina di 10 anni alla quale hanno appena regalato un giocattolo nuovo "ma come faccio a non dirtela?"

"ehi, signorina" Markus abbozzò un sorriso "calmati, prendi fiato...che succede?"

Amava quella donna, l'amava per la sua impulsività e la grinta, per quella dolcezza tutta particolare che aveva ogni volta che imbronciava il musetto o sorrideva, per quell'aria da furbetta pronta a combinarne una da un momento ad un altro... più imparava ad amarla e più non riusciva a capacitarsi della crudeltà dell'editto divino, quello che impediva l'amore tra i figli di Dio ed i figli dell'uomo. Non riusciva a concepire crudeltà più grande del non poterla amare.

"Non resisto, devo dirtelo!" incalzò quella ragazzina urlante che saltava scalza sul pavimento della loro cucina "aspetto un bambino!".

Silenzio.

Lungo, interminabile.

"Markus, amore?non sei contento?è bellissimo!Amore?ehi?amoreee?"

Silenzio.


"Amore?Qualcosa non va?Credevo...amore..." la di lei voce tremava, incredula, molto diversa diversa da quella sbarazzina ed entusiasta di qualche istante prima.

Markus non riusciva a sorridere, sebbene quanto di umano era in lui lo volesse. Sebbene quanto di umano era in lui non avrebbe dovuto esistere.

Avrebbe voluto gioire, urlare, scendere dall'auto e fare il pazzo.

In fin dei conti, finalmente, era accaduto.

Sebbene non lo ammettesse nemmeno a se stesso, lo aveva sempre desiderato.

Un figlio.

Non riusciva a sorridere, lo sguardo fisso sullo stesso dannatissimo punto, lontano da tutti, da ogni cosa, che prima o poi, ognuno di noi, si trova a fissare.

"A-aspettiamo un figlio" riuscì a biascicare, la voce rotta, Markus.

"Si, Angelo mio" fu tutto quello che disse Barbara, mentre la dolcezza della sua voce veniva interrotta dal suono del telefono che, proprio in quel momento, aveva deciso di spegnersi.

I clackson suonavano alle sue spalle, gli automobilisti scaricavano furiosi la loro bile verso quell'imbecille che bloccava l'incrocio. Lo stesso imbecille che sarebbe, a breve, diventato padre.

Lo stesso imbecille che avrebbe messo al mondo un Nephilim.

Silenzio era l'unica cosa che sentiva, il vuoto tutto ciò che riusciva a vedere.

Ogni cosa aveva smesso d'esistere, quasi l'intero creato gli fosse crollato addosso.

Scoppiò a ridere, d'una risata amara, isterica.

"Dio perdonami" fu tutto ciò che riusci a dire mentre abbandonava esausto, svuotato, la testa sul volante.

"Dio perdonami".

sabato 12 gennaio 2008

Black Jack

23…passo.

Ultima mano,il banco chiude senza possibilità di redimere il mio fermasoldi.

23…ridicolmente ridicolo, ricevere un 2 di picche persino da un Black Jack.

Incasso il colpo, con il mio solito cordiale, smagliante ed irriverente sorriso.

No, quello non cambia.

Il tempo trasforma ciò che tocca, ma le abitudini sono dure a morire.

Forse immortali.Sorrido ancora, hai visto?Ma cosa avrò mai da ridere?

Quella delle domande retoriche è un’altra delle tue abitudini…immortale,come te.

Ma forse non è il caso di questa notte…non dimentico il sorriso sfacciato di quel Jack di Picche e di quella Donna di Cuori…che bella coppia, turbata solo dal terzo incomodo: me, il 3 di fiori.

Era bella, bella da mozzare il fiato prima ancora che scendesse nei polmoni.

Bella e decadente come il tramonto viennese,turbolenta come il mare di Cardiff, imponente nella sua pelle eburnea come le scogliere norvegesi, calda come il sole su Stromboli…ed i suoi occhi…ricordo ancora il suo sguardo immerso nel mio,intrecciati in un tango incalzante scandito tachicardicamente dai nostri sensi eccitati, le nostre anime per un infinito istante avvolte tra la seta di un letto…un infinito istante di passione lacerante,come un uragano adrenalinico lungo le mie vene…le nostre bocche si schiudono,umide nonostante le sigarette,affamate ed ingorde, arroganti nella loro voluttà, si sfiorano senza toccarsi…in un lungo infinito istante di passione.

Peccato per il Jack di Picche, trasandato e romanticamente malinconico come un eroe dannato d’altri tempi.E ricco,molto ricco.Un concorrente spietato.Ed io non gioco in casa.

Donna di Cuori e Jack di Picche.Tre di fiori.23, il giocatore è fuori.

Incasso il colpo, con il mio solito cordiale, smagliante ed irriverente sorriso.

Sono stanco.La giacca penzola dalla mia spalla come un’appendice fastidiosamente ingombrante,almeno il passo fermo e fiero non mi abbandona…

Sono stanco, vecchio mio, ma in fin dei conti non sono mai stato fortunato al gioco.

venerdì 11 gennaio 2008

Giochi di Mezzanotte - Intro

Sentiva il sole illuminargli il viso,ma non riusciva ad aprire gli occhi.

La stanchezza lo pervadeva ancora, così come quella gradevole sensazione di soddisfatto piacere.

Il silenzio dominava incontrastato la stanza dove prima il respiro di Lei copriva,seppur sussurrato,ogni suono della notte, avvolgendolo nella solitudine di un amante abbandonato al mattino. Ma non aveva la forza di cercarla.

Ci pensò la porta a svegliarlo.

Lei non era più accanto a lui, quello splendido abito da sera non giaceva più abbandonato sulla poltrona, il suo reggiseno non ciondolava più dalla lampada accanto al letto…sparita,quasi fosse Lei la luna.

Si mise seduto,con le gambe fuori dal letto ed i piedi poggiati sul pavimento freddo,il capello scombinato e l’aria confusa di chi non ha ancora preso coscienza di esistere,il gusto delle labbra rosse e carnose di Lei ancora nella bocca…che splendida sensazione. Peccato fosse stronza.

Gettò lo sguardo all’orologio. Erano le 10,35.Tardissimo.

In un attimo fu investito dal getto rapido della doccia, fredda e violenta, per ritrovarsi subito dopo davanti allo specchio. Sei sempre la solita, pensò leggendo le tracce che col rossetto Lei aveva lasciate sulla superficie argentea:

“ti amo…mi seguiresti ovunque,vero?”

Un brivido freddo percorse la sua schiena. Non era acqua.

Si vestì in tutta fretta, il cliente lo attendeva da almeno mezz’ora in studio, prese al volo le chiavi del suo Mercedes senza annodarsi neanche la cravatta, si avviò a lunghi passi verso la porta quando vide sotto di essa qualcosa che non doveva esser lì: una busta.

Alzò gli occhi al cielo chinandosi per raccoglierla. Era di un cartoncino pregiato,ruvido,color avorio. E con il suo inconfondibile profumo,così delicato ed avvolgente.

Sapeva che sarebbero stati guai, quindi decise di rinviare l’inevitabile riponendo la lettera nella tasca destra della sua giacca, promettendosi di leggerla prima di pranzo.

Certo che gli sarebbe passato l’appetito.

giovedì 10 gennaio 2008

Lucien - Capitolo II

E' solo di un pò di sesso, ciò di cui hai bisogno adesso.

Continuo a ripetermelo, quasi una cantilena nella mia testa, inarrestabile e monotona, mentre quella bionda caricata al Cafè de Paris mi prende tra le labbra senza risparmiarsi.

Ci sa fare, la signorina, sembra avere tutta l'esperienza di una donna con gli anni di mia madre, ma in un corpo che non arriva al quarto di secolo.

Niente male, le ragazzine d'oggi,sono pronte a farsi sorseggiare come un Martini dry ad un party...

No,non mi dispiace affatto, non ho figlie.

Ho solo una dannatissima voglia di distrarmi,non pensare.Annullarmi.

Quale altro modo conoscete oltre al sesso?

Io nessuno.

Nulla più che semplice carne che chiama carne, che brama carne, che morde carne, famelica, rozza,furiosa.

Carne e sangue, nella vita e nel letto.

Quasi una maledizione.

"che ti prende?dove hai la testa?"mi chiede con quella sua vocetta amorfa,tipica di chi è appena uscita dalla pubertà.Non rispondo,le mie mani parlano per me afferrandole la testa e spingendola contro il mio membro con forza.

"'Sta un po' zitta,lasciami pensare"sembra dire il mio silenzio.

Ho lei davanti, avvolta da quella vestaglia bianca,le sue lacrime, il letto madido.

Il suo sangue.

Sono stato io.

Perchè mi perseguiti ancora?cosa vuoi?

Ti sento,lo sai...le tue mani,scivolano sul petto,le unghie...digrigno i denti,mi fai male,se le affondi...

No, non smettere!fammi sentire ancora le tue labbra,così,serrale ancora...mi togli il fiato prima che scenda nei polmoni...

No, non voglio aprire gli occhi, non voglio vederti, Tu non ci sei.

Non esisti, sei morta,ti ho uccisa.

Sono stato io.

Allora perchè ti vedo sorridere sopra di me, mentre il mio sesso ti affonda dentro spietato, mentre stringo i tuoi seni tra le mani?

Resta, non fermarti...ti voglio, ancora ed ancora,lasciati prendere,con forza...accoglimi, umida del piacere,vogliosa...lasciati travolgere,mentre chiudo gli occhi...

I tuoi gemiti mi riempiono la mente, sei così calda e sensuale, eccitante da perdere i sensi e smarrirsi insieme ad essi...

Sento solo i tuoi baci umidi ed affannati cercare la mia bocca, le tue labbra bagnate scivolare sul mio sesso, i nostri corpi stretti e sudati diventare una cosa soltanto.

Mi stordisci, il cuore pompa sangue all'impazzata, fregandosene della testa che sembra voler scoppiare, tenedo il ritmo del tuo bacino,del tuo sesso...

Non respiro, tanto intenso è il piacere, non ho la forza di emettere un suono mentre l'orgasmo si riversa dentro te.

Ti accasci su di me, esausta,come me, travolta dal piacere. Come me.

Non riesco a d aprire gli occhi, i tuoi capelli sul mio petto ed il contatto dei corpi è tutto ciò che voglio sentire. Non voglio guardarti.

Ho paura di non trovarti.





Non è stato semplice liberarsi di quella petit putain, sembrava non volersi sollevare da quel letto.Non è difficile intuire la ragione.

Alla mia età non avrò più le energie di un ragazzino, ma conosco quello che una donna vuole.

Il problema è che spesso le donne non conoscono quello che davvero voglio io:

una scopata degna di questo nome, e poi fuori dalla mia vita.

Fuori dalle palle.

Non mi sembra di chiedere molto.

Eppure non sembra,voleva fare conversazione, sapere chi sono, conoscere il mio lavoro.

Tutto questo dopo aver immaginato di far sesso con una donna che non era lei.

Morta, per giunta.

Mi vien da ridere.

"Ti chiamo", le ho detto quasi sbattendola fuori dalla porta della camera 209 con indosso le sue calze rotte e la camicetta strappata,quasi non vedessi l'ora di restare solo.

Una volta ancora.


mercoledì 9 gennaio 2008

Buon compleanno, Bepy

Ieri avresti compiuto 53 anni...
Ti avrei preso in giro per quel capello sempre più sale e sempre meno pepe, ti avrei regalato una cravatta di quelle per le quali andavi matto o magari una di quelle bottiglie di vino pregiato che ti divertivi a decantare.
Soprattutto ti avrei ascoltato, sarei rimasto ore ed ore a sentirti parlare, ridendo con te ed imparando, mio caro mentore...
Mi manchi, amico mio...
So che mi stai guardando, lassù, quindi lasciamelo dire: buon compleanno!
Ti voglio bene, ovunque tu sia.

martedì 8 gennaio 2008

Brevi storie inesistenti - Capitolo I, parte III

La canna della pistola fumava ancora, così come il foro tra quelle orbite dilaniate dall'impatto col proiettile.
Il sangue macchiava ogni cosa nel raggio di tre metri, macabro sfondo di una tela realizzata con frammenti d'ossa e pezzi di cervello.
Amanda giaceva lì, su quella sedia, la testa ciondolante quasi fosse nulla più che una bambola rotta.
Cazzo. L'aveva fatto.
La presa sulla pistola si fece lenta, debole, fino a far cadere l'arma con un rumore metallico ai suoi piedi, gli occhi dilatati, vitrei, le labbra impercettibilmente nervose, tremanti.
"Cosa ho fatto" disse a se stesso "cosa ho fatto".

Si svegliò urlante, madido di sudore, un groviglio di lenzuola bagnate ed acqua di colonia stantia.
Ancora una volta quel sogno, identico ai mille altri che lo tormentavano da quando lei era partita, sei anni prima.
"Amanda"
Infinite domande lo tormentavano ogni volta che sentiva quel nome, sveglio o addormentato che fosse, e regolarmente si ritrovava come uno stupido a far da eco alla sua voce.
"Dove sarà adesso?Come starà?avrà un lavoro o cosa?magari ha trovato un uomo, si sarà sposata...?Penserà ancora a noi, a quando tutto questo schifo non ci aveva ancora quasi ammazzati?"
Avrebbe voluto estrarre il pacchetto di marlboro, portare una bionda alle labbra ed accenderla con il suo Dupont d'oro... ma aveva smesso, lo aveva promesso ad Amanda.
Lo aveva costretto, con la sua dolcezza e con i suoi tormenti, sostenendo con le più assurde tra le argomentazioni possibili che quella roba, presto o tardi, lo avrebbe ammazzato.
Gli venne in mente il suo sorriso, quello che le compariva in volto ogni volta che lui spegneva sbuffando la sigaretta appena accesa, quel viso teso ed arrabbiato che diventava improvvisamente dolce ed irresistibile.
Gli mancava, così come gli mancava ogni cosa che riguardasse lei.
Forse per questo non c'era più nulla, in quella casa, che potesse ricordare la sua esistenza.
Non una foto, un libro, un capo d'abbigliamento, un pettine.
Nulla che appartenesse a lei esisteva più. Nulla.
Lasciò cadere il volto tra le mani, lentamente, quasi a cercare un conforto che non poteva avere...
E come ogni notte si ritrovò solo, con l'unica cosa che gli restava da fare.
Piangere.

lunedì 7 gennaio 2008

brevi storie inesistenti - Capitolo I, parte II

Afferrò la maniglia con una mano guantata, quella libera dall'impiccio della valigetta, facendosi largo tra la torma di clienti che affollava il negozio.
Signore e signorine, corpi vivi e pulsanti schiacciati e stipati come in una scatola troppo stretta, toccavano e tastavano, commentavano, provavano e scartavano, alla ricerca di un'esca appetibile tra la merce esposta.
Le osservava, distrattamente, saltando con oscena rapidità da uno sguardo all'altro, quasi volesse fotografare gli ultimi istanti di quel negozio e di quelle persone.
Erano carne morta, sebbene ancora non lo sapessero.
Nessuno si accorse della sua presenza, neanche quelle commesse che lo avevano accolto con un frettoloso ed infastidito "salve" tra cardigan e pullover, così come nessuno si accorse di quella valigetta nera poggiata accanto ad uno scaffale.
"Arrivederci" disse l'uomo con il lungo cappotto nero appena comprato e quella coppia di guanti di pelle così fuori moda.
Oltre la porta il vento tornò ad investirlo, schiaffeggiandolo ancora una volta.
Estrasse il pacchetto di marlboro, portò una bionda alle labbra e l'accese con il suo Dupont d'oro. Controllò l'orologio con l'aria di chi ha sempre tutto sotto controllo.
E si incamminò, inghiottito dalla via del centro.
Un'esplosione ruppe il brusio della folla, improvviso come le lamiere che si piegano sotto la pressione dell'onda d'urto, truce come il suono delle ossa che si spezzano, nauseante come la carne sciolta dalla deflagrazione.
“Il tempo di una sigaretta” si disse spegnendo il mozzicone mentre le urla dei feriti straziavano la strada.
“Solo il tempo di una sigaretta”.

sabato 5 gennaio 2008

Scivoli via, dannata puttana.

Mi guardi appena, ammicchi vogliosa

arrogante e boriosa

nulla t'importa del mio inseguirti.

Fuggi, fuggi,

nulla è cambiato.

In te, almeno.

E di me che resta?

Mi ritrovo più vecchio,

un corridore senza più muscoli,

ma con tendini doloranti

Corri, dannata puttana.

Corri.

Tu sai non ti raggiungerò.

Ed allora perchè tanto affanno?

Se mi distendessi o dondolassi?

E' la sfida quella che bramo,

lasciarti un segno nelle carni

il mio tormento.

Che di me in te qualcosa resti.

Questo è quel che voglio.

venerdì 4 gennaio 2008

brevi storie inesistenti - Capitolo I, parte I

Torino, 21 dicembre 2001


Il freddo entrava nelle ossa.

A nulla serviva quel lungo cappotto nero appena comprato, nè quella coppia di guanti di pelle così fuori moda.

Poteva sentire l'inverno torinese accarezzargli tagliente il viso, stordirlo con raffiche gelide ed improvvise. Ma non aveva il tempo per barricarsi in casa, al caldo.

Doveva lavorare.

Commissioni per conto terzi, per essere precisi.

Attorno a lui la gente si riversava in strada, quasi vomitata da negozi straripanti di ingordo consumismo.

Ma non aveva scelta. Il suo obiettivo si trovava proprio lì, da quelle parti.

Si fermò improvviso, riconoscendo l'insegna. Era giunto a destinazione.

Estrasse il pacchetto di marlboro, portò una bionda alle labbra e l'accese con un gesto del suo Dupont.

Respirò forte nei suoi polmoni, concedendosi un istante per chiudere gli occhi.

Amava fumare, specialmente con il freddo invernale. Ogni boccata gli trasmetteva una profonda sensazione di calore, conscio che quello stesso calore, presto o tardi, lo avrebbe ammazzato.

Riaprì gli occhi e controllò l'orologio con l'aria di chi ha sempre tutto sotto controllo.

“Il tempo di una sigaretta” si disse “solo il tempo di una sigaretta”.

Ma dove vogliamo andare?

Sviluppo, sviluppo, sviluppo!
Sembra essere la parola d'ordine di questo mondo...
Correre, produrre, business!
Dai, figlioli, crescete con questi imperativi in bocca, impegnate i vostri neuroni con queste tre semplici parole.
L'economia è la scienza suprema, la filosofia, la religione di Stato.
I Banchieri sono i sacerdoti di questa nuova dottrina mistica, e noi i suoi fottutissimi proseliti.
Ma, dico, non ci sentiamo un tantinello stronzi?Ma giusto un po'? Quel tanto che basta da farci capire che questo non è il modo giusto in cui tutto dovrebbe andare?
Ogni cosa ruota attorno al denaro che crea denaro, quasi figliasse, talmente pregno di capacità riproduttive che il solo avvicinare due banconote da 10 euro comporterebbe il generarsi di una terza da 5...
Mio Dio, siamo pazzi!
Retorica vuota, nevvero?
Parole al vento, fragili, insensate nel contesto Occidentale...banali.
Ed io sono un uomo insensato.
Forse sono semplicemente STANCO che qualcuno che non ho eletto parli di pace buttando bombe in mio nome, sono STANCO di vedere bambini che crepano di fame dopo lo spot del Mulino Bianco, sono STANCO di sentire il silenzio assordante che segue l'esplosione di una bomba in un centro abitato, STANCO di pensare a quanti innocenti moriranno per effetto delle radiazioni EMP che si divertono a sparare per la loro guerra tecnologica, STANCO per tutti quei bambini che cuciono palloni e magliette pubblicizzate dal fottuto calciatore di turno, STANCO dei tumori provocati dalle attività produttive, STANCO di respirare merda, STANCO dello scempio che ogni giorno fanno della mia terra, STANCO di dovermi guardare le spalle, STANCO dell'omologazione nella quale stanno cercando di opprimerci, STANCO del silenzio imposto alla nostra ragione, STANCO di urlare questa rabbia...
Sono stanco di dover esser schiavo di questo sistema oligarchico, in cui la democrazia è solo una scusa per rendere perpetuo un potere occulto che ci divora da sempre come un cancro.
Dobbiamo correre, signori e signore, dobbiamo correre.
Ma dove dobbiamo andare e, sopratutto, perchè?
Chiedetelo ai ragazzi della Thiessen-Krupp.
Che Dio li abbia in gloria.

giovedì 3 gennaio 2008

Pazzo

Osservo il fumo della sigaretta salire lento, nonostante mi fossi ripromesso di non toccare più una bionda...

Resto impassibile, freddo, distaccato, taciturno.

Dov'è la mia mente? Dove l'ho lasciata andare?

Non controllo il flusso di pensieri, ne sono avvolto, cullato.

Sono perso...

Dolce e nostalgica, la sensazione.

Dolce e nostalgica. Parole che non credevo avrei detto.

Eppure mi trovo qui, con il mio mozzicone spento, in bocca il sapore della cenere a ricordarmi che non c'è solo dolcezza nei ricordi.

Almeno non quando improvviso il dubbio mi si schianta addosso come un autotreno senza freni, non quando i “se” ed i “ma” urlano dirette nei timpani ragioni che prima non osavano che sussurrare.

Non quando mi accorgo d'esser finito in mezzo al mare.

Cazzo, perchè ti accalchi e spingi nella mia testa? Perchè sento il tuo profumo riempirmi i sensi, il tocco della tua pelle sotto le mie dita, il suono del tuo respiro? Dimmi...perchè?

Cosa succede?Cosa non va? Ti ho scacciata, rinnegata, cancellata, distrutta e ridotta a poco più di un mito lontano, qualcosa di così remoto da non ricordarne neppure il nome...eppure sei qui, quasi fossi sempre stata nascosta nei miei geni, sei un virus esploso dopo un'incubazione durata troppo.

Sei un pericolo.

Ogni equilibrio salta, sei dinamite, un ciclone che porta il caos nei miei pensieri, la sola arma contro quanto di me è uomo.

Sei risorta.

Ehi, Signorina 38, ti piace la mia tempia? Spara, se hai coraggio. Non ti temo.

Puoi entrare nella testa come un proiettile, piazzarti nel cervello con il tuo bacio al piombo, rovente..

Non farmi capire più un cazzo.

Dannata. Accidenti a te ed alla tua bocca! Riprenditi il tuo respiro, il tuo profumo, perchè troppo ti desidero e non mi spiego la ragione... ragione, poi! tu la fotti, la ragione, la macelli beffarda, divertita.

Cosa farò, mi chiedi? Attenderò.

Mmm, naaa. Non è da me.

Muoverò d'istinto, Signorina 38...muoverò d'istinto.


mercoledì 2 gennaio 2008

Quanto di quell'angelo resta

Avere il suo nome tra le labbra era già un'emozione in sè.

Ammirare il suo sorriso, poi, era come fissare il sole primaverile dopo il grigio dell’inverno.
L'ammirava distesa e nuda, addormentata, fasciata da un lenzuolo sottile che ne nascondeva a malapena le forme gracili immerse nella penombra di quella stanza.
Non poteva separar lo sguardo, e, sebbene infinite distanze lo separassero da lei, ne percepiva il respiro ed il profumo fresco della pelle.
Provava incanto e meraviglia come mai avrebbe creduto di poter avvertire un essere antico quanto il tempo, un'entità che aveva visto l'universo nascere, le stelle generarsi ed esplodere, l'uomo emettere i primi vagiti...
Si chiedeva come potesse una semplice figlia di Adamo costringerlo a distogliere lo sguardo dal suo mandato, come potesse lei ergersi al di sopra di ogni altra opera dell'Onnipotente al punto da fargli dimenticare di essere luce e spirito, essenza del tutto e del nulla, lontano dalla carne.
Un Serafino.
Se avesse avuto una testa l'avrebbe raccolta tra le mani, con un gesto così umano avrebbe aperto un cuore che non c'era al tormentato flusso d'emozioni che non poteva provare, ma che, dannatamente, sentiva scorrere violento lungo la sua essenza, scuotendolo e riempiendo il vuoto infinito del suo essere.
Quel labile confine, vietato e bramato, tra la carne e lo spirito, andava assottigliandosi come le ultime ombre della notte all'approssimarsi dell'alba. Come la tenebra cedeva il passo al giorno, quanto di Divino era in lui andava inesorabilmente mutando...
Non era più fiamma imperitura, la materia del suo corpo, né musica ciò che scorreva in vene, o pura idea la sua stessa essenza, non luce il suo respiro, non più mentre Cadeva dalle vette dell'Empireo. Era una cometa che attraversa il cielo, un astro tra gli astri, un esule tra gli altri Potentati, scacciato dal Cielo o forse attratto da un'altra orbita, un altro universo all'interno del quale gravitare.
Gli sembrò eterno l'istante dell'impatto, infinito il dolore di ossa, muscoli e pelle costrette al primo, duro tocco di una Terra che lui stesso aveva contribuito a creare. Inconsolabile la tristezza nell'ascoltare il pulsare imbizzarrito del suo nuovo cuore.
Sapeva che non vi sarebbe stata più eternità per lui, non gli spazi infiniti del Creato, non avrebbe più seduto accanto al Trono, nè atteso agli Alti compiti dei suoi fratelli.
Era un uomo, adesso. Null'altro. Fragile,finito.Ma non imperfetto. Aveva un amore, aveva lei.
Ed in un istante le fu accanto, sul letto, ad osservarne i capelli scompigliati sul cuscino sprimacciato, portando con se il profumo di stelle che non avrebbe più accarezzato.
Quanto l'aveva desiderata, quanto aveva bramato la sua esistenza prima ancora che lei vedesse la luce.Sapeva sarebbe arrivata, l'aveva inseguita attraverso il tempo, ed era per lei soltanto che, d'ora in poi, lui sarebbe esistito.
E lei, nel sonno, sorrise, consumando quanto di quell'angelo restava.
Lasciando soltanto un uomo.